Immagina un ragazzo nato a Naso nel 1940, figlio maggiore di cinque, con una sete insaziabile di colore e forme. Quel ragazzo è Tano Santoro, oggi artista di grande rilievo nel panorama italiano, pittore, incisore, ceramista, mosaicista. A Milano, dove ha vissuto per quasi sessant’anni, ha trasformato la sua “traccia”, la voglia di “cogliere” la luce, in un linguaggio che sfida etichette facili: tra pittura e incisione, racconto visibile e visione interiore.
Nelle sue tele grandi – spesso oltre i due metri – e nelle incisioni finissime, il segno non è decorazione, ma atto di intelletto e emozione. Segni frastagliati che inseguono nuovi equilibri cromatici, dialoghi tra pieni e vuoti, equilibri che non sono statici ma pulsano nella superficie stessa della tela. Bianchi puri, verdi frizzati, blu profondi diventano rifugio e slancio, mentre il segno grafico esalta l’intreccio tra luce e spazio.
Tutto nacque a Milano negli anni Sessanta, quando il giovane Tano giunse “povero e pazzo” con due tele e un sogno. Qui incontrò maestri come Giuseppe Motti, Tono Zancanaro e Armando Pizzinato, frequentò il gruppo Borgonuovo e coltivò l’idea radicale di far diventare l’incisione una forma di pittura, e viceversa. Oggi, le sue opere non illustrano, ma generano visione: “proprio un niente che contiene tutto”, come lui stesso ha affermato, individuando quel “crinale stretto” tra astrazione e realtà.
Nel corso dei decenni, l’artista ha vissuto Milano come laboratorio inesauribile – nella sua casa-studio di via Bertini, immerso nella luce — e al contempo ha mantenuto il legame con Naso, dove una pinacoteca a lui dedicata espone permanentemente le sue opere: dipinti, acqueforti, acquetinte e bozzetti che raccontano un percorso in cammino.
Sono le incisioni – acqueforti, puntasecche, acquetinte – dove il segno si compone con lavoro, pazienza, resta visibile la tensione tra figura e luce, tra pieno e vuoto. In queste tele il vuoto è materia, e il pieno è pensiero. La gestione della luce è quasi “scultorea”: i corpi emergono, d’un tratto, come colonne o presenze sospese, esempi di quella “solarità tormentata” intrisa di memoria mediterranea che fa della Sicilia un confluire di eros e dramma.
Nel 2017, la prestigiosa sala Bocconi ha ospitato la mostra Visioni, curata da Elena Pontiggia, con 20 tele e 10 bozzetti: «trame di segni e di luci che modificano la nozione di realismo» Negli anni ha esposto in gallerie e musei da Piacenza a Modena, da Milano al castello di Sant’Agata; ha tenuto antologiche, tornato a Naso dove una pinacoteca lo celebra come orgoglio locale.
Così racconta Santoro, sè stesso e l’arte: arte come esplorazione, segno come mappa dell’anima, luce come verità nascosta. Un grande maestro vivente, testimone di quell’andante eterno tra tradizione e sperimentazione, tra radici nebroide e speranza metropolitana. Tano Santoro resta per chi guardi con occhi aperti, una bussola “di salvataggio”: un esempio di come l’unione tra memoria, rischio, bellezza possa accendere la nostra più segreta umanità.
Massimo Scaffidi